Di tutte le varie exit – grexit, frexit, nexit, italexit fixit e brexit – che ci sono state paventate nei semestri precedenti l’unica per adesso che si è concretizzata sul piano pratico è proprio la sola Brexit, quella che tra l’altro aveva la minor possibilità di verificarsi. Tra qualche settimana con molta presunzione si affiancherà in seconda posizione quasi come fosse la prima fila di un gran premio di Formula Uno anche la Francia con la rispettiva Frexit. Nell’attesa che si verifichi questo evento proviamo a fare alcune considerazioni con dati a consuntivo dopo nove mesi dalla consultazione popolare britannica. Theresa May ha finalmente invocato l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che detta le linee guida per abbandonare istituzionalmente l’Unione Europea. La Brexit si è trasformata in Hard Brexit per i principali commentatori internazionali, una volta che si è conosciuto il tono di questo atto unilaterale da parte del Regno Unito. Senza entrare nella specificità certosina delle pretese britanniche, il quadro che emerge fa intendere la flebile stampella su cui si regge ancora l’Unione Europea. Fuori dai piedi. Fuori da tutti e da tutto quello che può essere soggetto al controllo e supervisione di una qualsiasi autorità europea. Insomma i britannici (non tutti come vedremo) vogliono ritornare a fare i padroni a casa loro e desiderano soprattutto smettere di prendere ordini da chi non ha origini angliche come loro. La ripresa del controllo sull’immigrazione ha rappresentato il tema dominante che ha prodotto sia il successo del fronte scissionista e sia il driver principale su cui verterà la fase negoziale con l’Unione Europea per i prossimi due anni (ammesso che quest’ultima rimanga ancora in vita).
Se questo può rappresentare un successo in ambito politico, tuttavia non possiamo per adesso poterci esprimere sulla convenienza economica di questa scelta per la Gran Bretagna. Solo tra due anni potremmo avere dati macroeconomici a consuntivo che ci consentiranno di fare raffronti con il passato e proiezioni future sul presente. Per ora abbiamo solo sul versante finanziario due dati inconfutabili: la sterlina inglese si è svalutata in percentuale sull’euro tanto quanto si è rivalutata la borsa inglese (FTSE 100). Circa il 15%. Per il resto abbiamo solo congetture soggettive di natura trasversale che ci possono aiutare a comprendere qualcosa. Iniziamo con le aspettative sul PIL. Sono stati abozzati due orizzonti: il moderate scenario ed il severe scenario. Il primo prevede per il 2017 una contrazione del PIL di 1.2% per il Regno Unito e di una riduzione dello 0.5% per l’Unione Europea in aggregato. Il secondo invece ipotizza una contrazione del 2% per lo UK e di quasi il 1.5% per la UE. Sostanzialmente le aspettative per il primo anno di effettiva negoziazione della Brexit vedono una Gran Bretagna perdere da uno a due punti percentuali di PIL. Sarebbero tanti. Naturalmente quelle indicate sono stime. Ma proseguiamo. A peggiorare il quadro complessivo si è aggiunta la Scozia che ha già fatto conoscere le sue intenzione di indire una nuova consultazione entro la fine del 2018 per rimanere all’interno della UE. Se questa evenienza si dovesse verificare, la Gran Bretagna dovrebbe metabolizzare un effetto collaterale piuttosto spiacevole: la dipartita dal Regno Unito che di certo non rafforzerebbe la sua economia e la sterlina. Il futuro del PIL britannico tuttavia si gioca sul versante bancario. Circa un terzo del PIL si produce infatti all’interno di un kilometro quadrato, la City.
La perdita di status di nazione europea obbliga tutte le banche che in essa hanno il loro head quarter a cercare una nuova capitale europea per potersi insediare e non perdere la possibilità di commercializzare, collocare e distribuire i loro strumenti finanziari al ricco mercato dei risparmiatori ed investitori europei. Per questa ragione sono chiamate ad assorbire ognuna con le proprie peculiarità le città di Francoforte, Parigi, Madrid e Milano, gran parte dell’indotto finanziario della City. I piani di fuga ormai non sono più ipotesi che vagano nell’aria, quanto strategia aziendali ben definite. Si parte da HSBC e si arriva a UBS, senza dimenticare JP Morgan e Goldman Sachs che stimano il dislocamento in aggregato di oltre dodicimila dipendenti all’interno dei nuovi hub europei o addirittura in quelli asiatici. A pagarne subito le conseguenze oltre che l’indotto perduto sarà proprio il mercato immobiliare residenziale di Londra. Per il 2017 si stima già una prima contrazione delle quotazioni al metro quadrato che varia da un meno dieci ad anche un meno venti per cento, nella consapevolezza che senza la City ed il suo indotto, il mercato degli immobili residenziali, soprattutto dei borough limitrofi, è destinato a subire un lento ed inesorabile declino. In tal senso viene richiamato il rischio di scenario alla Detroit per Londra qualora l’impatto della Brexit dovesse essere un bagno di sangue per la Gran Bretagna.
Ricordiamo infatti che per adesso abbiamo solo una prima fase negoziale tra due istituzioni sovrane, il Regno Unito da una parte e l’Unione Europea dall’altra: tuttavia ci potrebbe essere anche poca diplomazia tra le parti in futuro, soprattutto se dovesse cambiare in misura significativa la genetica dell’Unione dopo il voto tedesco e quello italiano. Detroit è stata per decenni la capitale mondiale dell’industria automobilistica (pensate per analogia alla City), una città metropolitana che nel momento di massimo splendore aveva il più alto livello di benessere economico negli States. Oggi invece è la città americana con il più alto tasso di criminalità, disoccupazione e povertà: la popolazione è passata dai due milioni degli anni sessanta ai 670.000 attuali. Detroit ha pagato a caro prezzo le scelte sconsiderate in termini di politica industriale e di programmazione dei flussi immigratori. La perdita di competitività delle tre grandi (Ford, GM e Crysler: sostituitele con le grandi banche americane ed inglesi) e il ridimensionamento delle loro attività hanno via via impattato sull’indotto dell’intera area metropolitana che nel frattempo su pressioni e convenienze sindacali aveva iniziato a preferire la manovalanza di colore per la catena di montaggio proveniente soprattutto dagli stati meridionali. Il lento processo di colonizzazione della città da parte di maestranze di colore produssero un progressivo allontanamento volontario dei bianchi wasp dalla città, motivato dall’aumento della conflittualità sociale che iniziò a caratterizzare la città, creando le condizioni per un lento ed inesorabile declino prima economico e poi sociale.