Il primo scritto da neofita che ho prodotto, senza sapere che nel tempo la scrittura sarebbe diventata una delle mie principali attività professionali, risale al 1990 quando durante la terza superiore produssi una dissertazione per il corso di Biologia e Scienze Naturali per il liceo scientifico che allora frequentavo dal titolo “Lucy, l’importanza della scoperta”. Custodisco ancora gelosamente due copie originali di questa primo dattiloscritto. Già perchè allora i pc come li conosciamo oggi non esistevano e nemmeno gli strumenti on demand per effettuare le ricerche. Ricordo che impiegai diversi mesi per la sua elaborazione e stesura mediante un elaboratore di testi in ambiente MS-DOS e la fase di stampa realizzata con una Commodore MPS 1230 (stampante ad aghi). Fui l’unico della mia classe a presentare il lavoro di approfondimento e ricerca pseudoscientifica al docente che ci diede l’incarico mediante uno scritto articolato e soprattutto stampato quasi professionalmente. Tutti gli altri compagni di classe lo presentarono scritto a mano sul classico foglio protocollo. Io andai oltre le specifiche di ricerca che ci vennero date e decisi di predisporre il tutto quasi come fosse una tesina di maturità odierna. Il lavoro tuttavia non fu molto apprezzato, forse perchè la forma prettamente editoriale di quanto prodotto (impaginazione, grafica in tonalità di grigio, testo giustificato, indice analitico e cosi via) metteva quasi in ridicolo quanto preparato dagli altri compagni di classe, quasi come se il tutto fosse stato elaborato da un grafico professionista invece che da un adolescente.
Il lavoro di ricerca che affrontai era incentrato su uno degli argomenti che all’epoca più mi affascinava ossia il percorso evolutivo della razza umana. L’intera opera se cosi si può chiamare era incentrata sull’importanza attribuita alla scoperta in Etiopia nel 1974 dei primi resti fossili di una femmina di Australopiteco Afarensis soprannominata Lucy dai ricercatori, perchè al momento del suo ritrovamento alla radio stavano dando una canzone dei Beatles denominata Lucy in the sky with diamonds. Le ricerche universitarie o scolastiche di quel tempo erano molto diverse da quelle odierne: bisogna andare in biblioteca, consultare gli archivi per temi ed argomenti, richiedere il prestito dei libri, leggerli, rielaborarne il contenuto e cosi via. Quello che ci si impiegava tre mesi ad ottenere solo come fonti di ricerca oggi si può averlo in una giornata davanti ad un motore di ricerca online. L’essenza dello scritto di allora, basata sulle principali teorie evoluzionistiche di fine anni ottanta, sostanzialmente enunciava come il percorso evolutivo dell’Homo Sapiens Sapiens avesse una direzionalità lineare ossia partendo dal più lontano predecessore stimato, il Ramapiteco (un primate vissuto tra i 12 e gli 8 milioni di anni fa) si fosse arrivati per successione lineare all’Homo Sapiens di 200.000 anni fa. Nello specifico dopo il Ramapiteco ci sarebbero state diverse famiglie di Australopitecine (scimmie dell’emisfero australe) dalla quale sarebbe emersa per capacità e dimensione della calotta cranica l’Australopiteco Afarensis, a cui sarebbe succeduto l’Homo Habilis, dopo l’Homo Erectus (detto anche Homo Ergaster), l’Homo di Neanderthal e di Cro-Magnon ed infine il primo Homo Sapiens. In estrema sintesi quindi una successione lineare di tutta la discendenza genetica.
Quasi come se ci fosse stato un passaggio evolutivo sequenziale con ogni salto genetico. Ripeto questo è quanto si credeva sino alla fine degli anni ottanta, in pieno assenso con il pensiero dominante ereditato dagli studi ed elaborati di Charles Darwin all’interno dell’opera che lo ha reso celebre “L’origine della specie”. Le teorie evolutive e relative ipotesi basate sul lavoro di Darwin oggi sono considerate superate ed addirittura in taluni casi anche aberranti. Lo studio del genoma umano e ulteriori nuove scoperte durante l’ultimo decennio hanno portato alla luce nuovi reperti fossili attribuibili ad altri potenziali pretendenti al titolo di “homo primitivo” come l’Homo Naledi nel 2013 ritrovato in un sistema di caverne in Sudafrica. Proprio il ritrovamento del Naledi infatti consente di avallare una serie di considerazioni evolutive che metterebbero definitivamente in discussione la stessa Lucy come nostra antenata più diretta. Ad esempio, mentre le Australopitecine avevano caratteristiche fisiche che consentivano tanto l’arrampicarsi ancora sugli alberi quanto la capacità di camminare, l’Homo Naledi (che in un idioma locale del Sudafrica significa uomo stella o uomo delle stelle) aveva sembianze già più smarcate ed ibride: busto e spalle tipiche degli ominidi più primitivi, mentre gli arti inferiori erano decisamente più simili a quelli umani cosi come li conosciamo oggi, lunghi e sottili con muscolatura robusta ideali per un’andatura bipede. Quello che colpì profondamente i paleoantropologi che si imbatterono per la prima volta in numerosi scheletri di quello che oggi si chiama l’Homo Naledi è rappresentato dalla sua predilizione (si ipotizza) per il trattamento rituale dei cadaveri degli altri suoi simili.
In buona sostanza, questa caratteristica tipica ad esempio dell’Homo di Neanderthal, dimostrerebbe un lato inaspettatamente umano per un nuovo antenato su cui ancora oggi verte il dibattito delle comunità di ricerca internazionali sulla effettiva linea evolutiva dell’Homo Sapiens Sapiens. Quello su cui invece si è ormai certi è rappresentato invece dalla perdita del titolo di culla dell’umanità che per decenni si è assegnato proprio all’Africa. L’Homo Naledi ci porta a convenire che il nostro albero genealogico ha uno sviluppo multiforme molto simile per analogia a quello del delta di un grande fiume come il Mekong o il Gange. Partendo da una sorgente comune ossia un lontano antenato uguale per tutti (forse proprio l’Australopiteco Afarensis), lentamente nel tempo si sono sviluppate, anche in parallelo, numerose diramazioni, alcune delle quali muoiono senza lasciare traccia, altre invece proseguono sino ad arrivare ad intrecciarsi tra di loro producendo mescolanza genetica. Quasi tutte queste diramazioni alla fine arrivano alla foce (l’Homo Sapiens) confluendo assieme al mare in un unico delta. Proprio questo mescolarsi e spostarsi avrebbe prodotto una delle grandi migrazioni umane, prima verso l’Africa orientale e successivamente verso l’Asia, da cui poi ci sarebbe mossi ulteriormente verso l’Europa. Quindi in estrema sintesi, l’Homo Sapiens dovrebbe avere avuto un origine da specie distinte, le quali a seguito di numerose migrazioni ed intrecci genetici avrebbero potuto uniformare il proprio apporto genetico, arrivando all’uomo moderno. La storia dell’evoluzione umana ha ormai caratteristiche enigmatiche degne della prossima serie televisva di Netflix: chissà tra altri venticinque anni quale sarà la tesi dominante e più accreditata.