Tramite gli intermediari finanziarie ed il circuito bancario tradizionale in Italia sono collocati oltre diecimila fondi comuni di investimento, ognuno con una sua strategia di gestione, selezione titoli e track record delle performance maturate nel passato. Tutti questi fondi possono essere categorizzati attraverso varie modalità discriminatorie: per aree geografiche di appartenenza dei titoli che detiene il fondo, per la natura del titolo (ad esempio azionario oppure obbligazionario), per la modalità di gestione (flessibile, dinamica, bilanciata, direzionale e cosi via), per la valuta che denomina il NAV (euro, dollaro oppure altro), per la modalità di trattamento dei proventi e dividendi percepiti (distribuiti oppure reinvestiti) e potremmo andare avanti ancora con altri elementi distintitivi che consentano di creare sottocategorie di analisi. Ovviamente questo vale per il mercato italiano, se invece prendiamo l’intero universo sottoscrivibile arriviamo ad una cifra che si avvicina al milione di fondi potenzialmente da analizzare. Attenzione a non fare confusione, sto parlando dei fondi comuni di investimento e non degli ETF i quali rappresentano, nel bene e nel male, degli strumenti a gestione passiva, i quali in sostanza per chi non lo sapesse ancora replicano piuttosto fedelmente l’andamento di una determinato sottostante (come un indice azionario o un paniere di obbligazioni e cosi via discorrendo).
Ognuno di questi fondi comuni di investimento ha un proprio rendimento annuo specifico, diversamente dagli ETF che per definizione tendono ad allinearsi in termini di performance ovviamente all’interno dello stesso mercato di riferimento. Combinando tra loro diversi fondi comuni di investimento, selezionati in base alla strategia di gestione ed alle asset class detenute, è possibile realizzare performance che non sono correlate positivamente al risultato dei mercati finanziari globali. Questo assunto trova fondamento nelle diversa modalità di gestione che caratterizza ogni comparto finanziario. Per semplificare, un fondo azionario europeo emesso da Invesco potrebbe avere un rendimento significativamente diverso da un fondo di Schroders che investe anch’esso in azioni europee. Questo perchè i due comparti hanno due team di gestione indipendenti, ognuno dei quali ha una propria view di mercato a cui corrisponde una diversa attività di stock picking: significa in termini pratici che le azioni inserite nel fondo gestito da Schroders non sono le stesse (presumibilmente) di quello gestito da Invesco (attenzione che quanto sopra rappresenta solo un esempio con finalità formativa). Imparare e comprendere pertanto come si differenziano e come si comportano i vari comparti finanziari in una medesima finestra temporale può aiutare tantissimo nella realizzazione di portafogli di fondi con rendimenti complessivi positivi o decorellati dall’andamento dei mercati finanziari globali.
Il 2018 ha fatto comprendere l’importanza di questa esigenza ossia discriminare continuamente tra le varie case di gestione, selezionando di volta in volta quelli che possono essere i fondi migliori per il contesto di mercato, senza legarsi visceralmente ad una sola casa di gestione (cosa ancora oggi presente sulla maggior parte dei dossier titoli gestiti da banche tradizionali). Per rispondere alle richieste dei lettori che chiedono un metro di giudizio per valutare la bontà di un fondo che hanno in portafoglio al di là delle performance voglio elencarvi tre semplici parametri finanziari che solitamente non vengono spesso soppesati adeguatamente nell’attività di fund selection. Partiamo con il TER ossia il total expence ratio, vale a dire quanto costa in percentuale su base annua il fondo che mi ritrovo in portafoglio o inserito nella gestione patrimoniale che mi hanno proposto. Il TER ovviamente dipende dalla tipologia del fondo stesso, un monetario non consta come un azionario ad alta specializzazione. Se il TER si discosta molto dalla media dei competitors, questo deve essere giustificato da performance mediamente superiori rispetto alla media, se cosi non fosse stiamo parlando di un fondo che ingrassa troppo le tasche della casa di gestione a fronte del modesto risultato ottenuto (ve ne sono più di quanti possiate immaginare).
Dopo il TER, possiamo trovare un ulteriore ausilio nel tracking error, il quale esprime con grande semplicità la capacità del gestore di generare un rendimento superiore o inferiore al benchmark di riferimento. Vale a dire che mi aiuta a comprendere se mi conviene acquistare un ETF sull’azionario europeo oppure un fondo gestito dalla tal casa di gestione la quale è riuscita a sovraperformare di numerosi punti il benchmark (in questo caso potrebbe essere proprio l’indice azionario EuroStoxx50). Infine il terzo parametro di ausilio è lo Sharpe Ratio il quale rappresenta il maggiore o minore rendimento ottenuto dal fondo rispetto ad un generico investimento privo di rischio come un titolo di stato a breve termine di elevata solidità. Oltre a questi primi tre core indicators possiamo annoverare anche la dimensione della massa gestita (né troppo e né troppo poco), la volatilità a 5 anni e la presenza di eventuali riconoscimenti finanziari (awards) ossia il fatto che il fondo in questione sia stato ad esempio premiato come il migliore negli ultimi tre anni per una specifica categoria di gestione. Per chiudere, non dimenticate che tutti questi parametri o indicazioni sono riportati sul KIID di ogni fondo (Key Investor Information Document): se il vostro promotore o referente bancario si dovesse innervosire alla vostra richiesta di esibire tali dati analitici, forse è arrivato il caso di abbandonarlo per migrare il vostro portafoglio fondi verso altri lidi o meglio ancora per iniziare un sistematico percorso di autogestione delle vostre disponibilità finanziarie, il quale nel lungo termine vi produrrà una proficua soddisfazione, evitando di ingrassare continuamente le tasche di comparti finanziari troppo onerosi e discutibilmente performanti nel lungo termine.