Come è già stato spiegato in una clip precedente inoltrarsi nei meandri del Bilancio dello Stato non è cosa da tutti, occorre tanta competenza quanto masochismo. Deltronde una persona che lavora otto ore al giorno, sei giorni su sette, ha famiglia e figli da accudire, ha sempre meno tempo disponibile da dedicare a quello che non riguarda il lavoro ed il resto della sua vita: quando se ne torna a casa potete stare tranquilli che la voglia di capire come e quanto lo Stato spende il denaro dei contribuenti è presso chè tendente a zero. Comprendere il Bilancio dello Stato e la sua struttura a mio avviso dovrebbe essere uno sforzo civico che dovrebbe fare ogni contribuente almeno per rendersi conto di quale proposta politica sia effettivamente sensata e ragionevole in forza delle dinamiche della spesa pubblica. Da dieci anni il Bilancio dello Stato in Italia è suddiviso in 34 missioni e 176 programmi e 718 azioni. Per semplificare al massimo possiamo dire che le missioni rappresentano gli obiettivi strategici da perseguire con la spesa pubblica, tali obiettivi pertanto rendono più trasparente l’allocazione della spesa. Sono missioni ad esempio: la giustizia, l’istruzione scolastica, l’immigrazione e l’accoglienza (missione numero 27), il debito pubblico o gli organi costituzionali. I programmi invece sono aggregati di spesa con finalità omogenea diretti al conseguimento degli obiettivi stabiliti nell’ambito delle varie missioni.
Sono programmi ad esempio: la presenza dello Stato all’estero tramite le strutture diplomatiche e consolari, l’approntamento delle forze aeree, il sostegno all’editoria (rientrante nella missione 15 ossia Comunicazioni), la vigilanza sul patrimonio culturale (missione 21 ossia Tutela e Valorizzazione delle attività culturali). Le azioni invece sono aggregati di bilancio sottostanti i programmi di spesa che hanno lo scopo di specificare ulteriormente la finalità della spesa rispetto a quella individuata in ciascun programma. Ad esempio il reddito di cittadinanza rappresenta una nuova azione istituita sul Bilancio dello Stato, la quale viene identificata numericamente con il protocollo 24.12.09 ossia Missione 24 (Diritti Sociali e Politiche Sociali), programma 12 (Trasferimenti Assistenziali e Spesa Sociale) e 09 il numero che individua la suddetta azione della spesa pubblica. Ogni missione è affidata ad un’unica amministrazione centrale di primo livello volgarmente chiamata ministero. Attualmente il governo italiano si basa su tredici ministeri, mentre nel 2008 erano diciotto. Questo significa pertanto che alcuni ministeri amministrano più missioni rispetto ad altri che ne hanno solo una (come ad esempio il Ministero della Difesa). Tutte queste classificazioni e suddivisioni producono una ampia articolazioni di voci contabili e sottocapitoli di spesa che di certo non semplificano la vita al contribuente desideroso di comprendere come viene destinata la spesa pubblica.
Una delle voci di più difficile analisi è rappresentata dalla spesa per l’assistenza sanitaria, la quale stranamente non rappresenta una missione a sé stante al pari della giustizia, della difesa o dell’istruzione. L’assistenza sanitaria e la previdenza nazionale rappresentano il primo ed il secondo aggregato di spesa per stanziamenti delle missioni ad esse collegate. L’assistenza sanitaria risulta inserita in via principale all’interno della terza missione ossia Relazioni finanziarie con le autonomie territoriali, la quale per il 2018 ha ricevuto uno stanziamento di 118 miliardi di euro. In buona sostanza la sanità è una voce di spesa che viene demandata per competenza alle regioni, le quali decidono come e quanto spendere il trasferimento di risorse ricevuto dallo Stato. Già qui si potrebbe aprire non un nuovo articolo, ma un intero blog dedicato all’argomento. Tuttavia chi desidera addentrarsi nei meandri della Sanità può far riferimento ancora una volta alla Ragioneria Generale dello Stato che pubblica ogni anno il rapporto finanziario sul Monitoraggio della Spesa Sanitaria (oltre 200 pagine tra dati, tabelle e riclassificazioni di voci e costo). Da questo documento di rilevanza istituzionale scopriamo che negli ultimi quindici anni, il Sistema Sanitario Nazionale è stato interessato da importanti interventi di riforma che hanno consentito di migliorare l’efficienza del settore, anche attraverso un’analisi selettiva delle criticità, fermo restando il principio del diritto alla salute costituzionalmente garantito ed il rispetto dei vincoli di bilancio programmati.
Al di là di questi proclami molto prosaici forse sarebbe il caso di soffermarsi sulla dinamica della spesa sanitaria che in Italia negli ultimi 15 anni si è trasformata in un’autentica idrovora di risorse pubbliche, passando da 79 miliardi nel 2002 agli altre 115 nel 2018, sostanzialmente con una crescita di quasi il 50%. Rappresenta il capitolo di spesa che è cresciuto percentualmente di più nel suo complesso durante questo periodo. Forse per questo motivo non è il caso di metterla in bella evidenza sul Bilancio dello Stato, ma spacchettarla in voci che non sono facilmente confrontabili. Un terzo di questa spesa è rappresentata dagli stipendi per il personale dipendente medico ossia 35 miliardi all’anno, al primo posto comunque troviamo come dipendenti dello stato i 46 miliardi che assorbe l’istruzione scolastica. Da sapere che nel 2018 lo Stato ha speso 93 miliardi per redditi da lavoro dipendente: pertanto personale medico e personale scolastico rappresentano da soli il 90% dell’intera spesa. Politicamente parlando è pericoloso quindi sognare di toccare le retribuzioni in queste due funzioni pubbliche in quanto rappresentano quasi il 90% dei dipendenti pubblici. La spesa sanitaria è cresciuta mediamente del 6.5% con pochissimi anni (2011, 2012 e 2013) in cui è stata negativa più che altro per ragioni di congiuntura economica mondiale che vera e propria spending review. La componente tuttavia che è cresciuta in percentuale di più all’interno della spesa sanitaria è rappresentata dai consumi intermedi, termine generico che comprende dispositivi medici, farmaci ospedalieri e forniture ospedaliere. L’incidenza di questa voce sul totale della spesa sanitaria in 15 anni è passata dal 19% al 29%: si capisce per quale motivo le lobby del settore sono reticenti ad adottare misure atte a razionalizzare la spesa sanitaria mediante il ricorso ai costi standard.