Per tutta l’industria del risparmio gestito il 2018 può essere tranquillamente definito l’annus horribilis, addirittura peggiore del 2008, l’anno che vide fallire Lehman Brothers e diede avvio ad un quinquennio di instabilità e preoccupazioni finanziarie che non si vedevano da svariati decenni. Il 2018 è infatti più preoccupante del 2008 in quanto sostanzialmente quasi tutte le asset class hanno sottoperformato ed in taluni casi anche molto verso il finale dell’anno. Questo significa che né l’oro e né i titoli di stato dell’area euro sono stati in grado di produrre una rivalutazione del capitale investito. Il 2018 ha aperto il vaso di Pandora per il risparmio gestito, vale a dire la resa dei conti a consuntivo in quanto tutte le grandi investment house hanno prodotto risultati negativi od in taluni casi addirittura preoccupanti, vedasi il caso del Carmignac Patrimonie che ha obbligato il fondatore della omonima casa di gestione, Eduard Carmignac, a ritirarsi dalla gestione di uno dei fondi più conosciuti al mondo caratterizzato da un glorioso passato di performance rilevanti. Il Carmignac Patrimonie ha chiuso il 2018 con quasi dodici punti di contrazione negativa, che sono tantissimi per la tipologia del fondo in questione ossia un bilanciato moderato.
Questa performance ha dato avvio ad una consistente richiesta di smobilizzi che ha portato la massa gestita del fondo ai 13 miliardi attuali contro gli oltre 20 che amministrava sino a qualche anno fa. Il Carmignac Patrimonie ci fornisce una importante lezione pratica se si investe in fondi comuni di investimento (gestione attiva o delegata): niente è per sempre. Non è più comprensibile e consigliabile costruire una asset allocation assemblando tra loro diversi comparti finanziari, magari i migliori in quel momento per risultati, efficienza e volatilità pensando che tale portfolio model debba essere eterno in quanto le caratteristiche vincenti di alcuni fondi potrebbero non essere mantenute con stabilità nel futuro prossimo o peggio disattese. Numerosi altri fondi blockbuster, pubblicizzati dalle varie case di gestione come il Sacro Graal della gestione attiva negli anni precedenti, hanno deluso le attese dei fund selector, ma soprattutto hanno realizzato performance decisamente negative e preoccupanti per la politica di gestione osannata dalla singola investment house come la risposta a tutte le esigenze del piccolo investitore. Questa considerazione è trasversale, riguarda tutto il gota di questa industria: BlackRock, Fidelity, Schroders, UBS, Pimco, Natixis, Morgan Stanley, Amundi, Invesco, Franklin Templeton, Aberdeen Standard, Janus Hendersen Horizon, Columbia Threeneadle, Pictet, M&G, Nordea, Vontonbel, Carmignac e scusate se non cito quelle meno conosciute.
In particolar modo ciò che deve allarmare è rappresentato dalle performance di quei comparti finanziari che sono stati concepiti per avere un approccio market neutral al mercato (spesso categorizzati come fondi flessibili, alternativi o absolute return) tanto nell’equity quanto nel debito visto che sono meno di cinque i fondi facilmente sottoscrivibili in Italia che appartengono a tale categoria capaci di avere generato una performance positiva e pertanto onorando la loro ragione d’esistere. Che senso ha infatti avere in portafoglio un fondo con una politica di gestione market neutral o di absolute return se alla fine scopri che a consuntivo ha perso tanto quanto un fondo direzionale o addirittura peggio. La maggior parte di questi comparti sbandierati come il nuovo che avanza ha una vita tutto sommato molto giovane visto che sono nati qualche anno dopo il crash di Lehman Brothers: l’andamento del 2018 consente ora di poterli giudicare per quello che sono veramente: una delusione oppure (peggio) un grande bluff. Non dimentichiamo l’essenza della gestione attiva: pagate ogni anno il gestore prescelto su base percentuale affinchè amministri il vostro denaro con il fine di realizzare performance migliori del benchmark. Qualora un fondo ad esempio flessibile sia privo di benchmark (e lo sono spesso) allora il giudizio deve essere ancora più critico in quanto avete delegato (e pagato) il gestore affinchè si comporti come un camaleonte.
Purtroppo a consuntivo notiamo che comparti finanziari in grado di realizzare con efficacia ed efficienza questo obiettivo sono veramente pochi, mentre aumentano costantemente quelli che sono quasi tutti correlati positivamente all’andamento del mercato. L’inizio del 2019 è stato caratterizzato da una intesa propulsione rialzista sull’equity che tuttavia non è stata interamente cavalcata proprio dai comparti flessibili i quali si devono distinguere dal resto della massa proprio per questa peculiarità, vale a dire la capacità di interpretare il mercato per anticiparlo o assecondarlo. Questa è l’unica motivazione che può tenere a galla l’investimento a gestione attiva: ha senso pagare una investment house se fa veramente meglio del mercato o quando l’aria serena si trasforma in tempesta antartica è capace di proteggervi dal freddo e dalle raffiche di vento. Se questo non si realizza o si consegue si deve essere oggettivi ed iniziare a volgere lo sguardo alla gestione passiva (il mondo degli ETF) che costano decisamente molto meno e vi garantiscono che replicano fedelmente l’andamento del mercato di riferimento. A riguardo gli ETF che consiglio sono unicamente quelli a replica fisica, mettendo al bando quelli sintetici (per i rischi spesso sconosciuti a cui vi espongono, come il rischio di controparte). Il 2019 sarà l’anno della verità soprattutto per i rischi di scenario geopolitico e macroeconomico che si stanno delinenando all’orizzonte: in caso di ulteriore defiance da parte della gestione attiva, dovrà essere infatti il singolo investitore che di proria sponte dovrà imparare ed intraprendere la strada del camaleontismo spostandosi velocemente ed efficacemente tra gestione attiva ed passiva in numerosi momenti di mercato.